“I’m fine” non diventa “Sto bene”.
In inglese, “I’m fine” spesso significa “non chiedermelo”.
In italiano, “sto bene” è una promessa.
Romperla è tradire due volte.
L’ho imparato non da un libro, ma dalla mia voce — rotta, insicura — che diceva “Sto bene” a un amico che mi ha guardato e non ha detto niente. Non aveva bisogno della grammatica. Ha sentito la bugia nella pausa.
Succede di continuo.
Un collega dice “Va tutto bene” dopo una riunione tesa — non con calma, ma con stanchezza. Non sta affermando un fatto. Sta tracciando un confine: “Non ne parlerò più.” Nessun dizionario registra quel limite.
Ho letto un romanzo tradotto dall’inglese in cui ogni “Sure!” era diventato “Certo!” — e il personaggio sembrava entusiasta, quasi felice. Ma nell’originale, “Sure” era tranquillo, cortese, forse persino stanco. La parola era corretta. Il mondo era perduto.
Tradurre non è abbinare vocaboli. È ascoltare il silenzio tra le sillabe — il peso che una parola porta nel suo respiro nativo — e scegliere, nella propria lingua, la cosa più vicina a quella verità.
Perché le parole non sono contenitori. Sono vasi. E, a volte, il vaso va rimodellato per portare la stessa acqua.
- In inglese, “sorry” si dice per un caffè versato.
- In italiano, “scusa” si riserva per un danno reale.
Tradurre l’una con l’altra non corregge — distorce.
Il traduttore onesto non chiede: “Cosa significa?” Ma: “Cosa sta cercando di proteggere?”
E a volte, l’unica scelta fedele è lasciare la parola intatta — scrivere “fine” e lasciarla lì, straniera ma vera — poi aggiungere, in silenzio: “Non ‘bene’. Non una promessa. Uno scudo.”
Se traduci per essere corretto, costruisci un ponte che nessuno attraversa. Se traduci per essere vero, qualcuno lo percorrerà — e ti riconoscerà dall’altra parte.