Qualche giorno fa, alle 15:00, ho sentito dire “buonasera”. Nessuno ha corretto. Nessuno ha sorriso. Perché tutti hanno capito: non era l’orologio a parlare — era il corpo.
Eppure, non ho mai sentito “buon pomeriggio”. Non da un madrelingua. Non in una conversazione vera. Solo nei manuali, nei quiz di grammatica, nelle voci sintetiche delle app.
Perché?
Perché “buongiorno” e “buonasera” non sono solo parole. Sono suoni con il peso del corpo.
- “Buongiorno” parte dal petto: BUON-gior-no, due sillabe forti, quasi gutturali — come un respiro che si prepara al giorno.
- “Buonasera” scende nella gola: buo-na-SE-ra, tre sillabe, ma con l’accento che cade come un sospiro — la fine che arriva, accettata.
Ma “buon pomeriggio”? BUON-po-me-RIG-gio — cinque sillabe, doppie consonanti, una “gg” dura che spacca il ritmo. Suona come un motore che non ingrana. Come una nota stonata in una melodia che conosci a memoria.
Per anni l’ho sentito — e taciuto. Oggi, invece, voglio dirlo: la lingua non segue l’orologio. Segue il respiro, la luce, il peso del giorno.
Chi dice “buonasera” alle 15:00 non sbaglia. Dice solo che il suo corpo ha già finito. E chi non dice “buon pomeriggio” non ignora la grammatica. Ascolta la musica nascosta — quella che nessun dizionario scrive, ma che tutti sentono.
Se vuoi capire perché è così raro, prova questo: pronuncia ad alta voce:
- “Buongiorno”
- “Buonasera”
- “Buon pomeriggio”
Non pensare alle regole. Ascolta il suono. Senti come le prime due parole stanno, mentre la terza inciampa? È il tuo orecchio che rifiuta la dissonanza — non la tua mente che applica una regola.
E questo — più di ogni eccezione grammaticale — è ciò che rende l’italiano parlato diverso dall’italiano scritto.
Chi impara solo dai libri, parla correttamente — ma non viene mai accolto come “uno di noi”.